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Nuotare scalzi

 

Il viaggio di Nabil, un poema contemporaneo sulla migrazione clandestina

«Sorprendente, originale, commovente»
Emanuela Pistone, Isola Quassùd

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A volte mi sento come un bambino che si butta in acqua, che avanza dove ancora si tocca, nuota, va verso la luce del sole che si riflette all’orizzonte ma sente che dentro di sé c’è qualcosa che lo trattiene, che lo rallenta, che lo scoraggia.

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Il bambino allo specchio ha i piedi nudi e le caviglie pulite, ma quando si immerge e nuota a rana annaspa; le sue braccia si distendono e poi tirano indietro come appese a delle liane subacquee, sostenendo un peso che viene… da dove? Un peso che non si conosce o forse non si vuole riconoscere. Il bambino decide che non gli piace nuotare.

Si aggrappa a uno scoglio pieno di muschio e telline, si solleva e si mette a sedere sulla superficie appuntita che punge sulle natiche. In lontananza c’è il cielo che si attorciglia in spirali di azzurro, e lì c’è l’odore del mare che lo tira per le narici. Sente un brivido di freddo che gli solletica la colonna vertebrale.

Qualcuno da dietro gli copre la faccia con un telo da mare, gli strapazza i capelli neri per asciugarli e poi lo poggia sulle sue spalle. Lui non riesce a voltarsi perché il suo sguardo è fisso sull’orizzonte e crede di sognare. La voce gli dice di fare un esercizio: toccati gli alluci con gli indici della mano. Il bambino obbedisce senza sapere perché.

Stira il busto in avanti e allunga le braccia. Contrae i piedi all’indietro e fa un piccolo sforzo elastico. È allora che succede qualcosa di incredibile. Il bambino sente qualcosa fra le dita e il dorso del piede, una sostanza invisibile e ruvida.

Cerca di afferrare il piede destro con tutta la mano e sente un rivestimento liscio e umido che lo avvolge. Non riesce a distinguere le dita e dove si aspettava di trovare la pianta sente delle protuberanze spigolose e regolari.

Quando si alza di scatto in piedi capisce tutto. Strabuzza gli occhi, arriva un’onda improvvisa che gli schizza dritta sul petto. Solleva prima un piede poi l’altro, così avanti per qualche secondo. La voce torna a parlare. Si volta per cercarla. Non la trova.

Tuffati dice la voce, tuffati e lo dice non più con un tono paterno ma come un’imposizione, tuffati, come un ordine che deve essere eseguito adesso, tuffati non c’è tempo da perdere tuffati se non lo fai adesso… tuffati perché non ha più senso stare qui a seccare sotto il sole, tuffati ma per favore fallo senza le scarpe.

Il bambino ha paura, sembra allontanarsi dal ciglio e fare due tre quattro passi indietro a testa bassa ma è una rincorsa, il bambino si china per slacciare gli scarponi scuri che non sapeva di indossare, ne prende uno in mano e lo scaglia di lato con una forza impensabile per i suoi piccoli tricipiti.

Sente la pietra calda sotto i piedi e si mette in posizione come ad aspettare la pistolettata del giudice di gara. Corre verso l’acqua agitando le braccia, con le pupille spensierate, spicca un salto e si sente così leggero che mentre è in aria raccoglie le gambe al petto per fare la bomba.

Già lì che nuota, come un sasso lanciato sulla superficie del mare, veloce, con uno stile che nessuno gli ha insegnato. Il bambino riempie l’acqua di schiuma con le sue bracciate, le sue gambe sono una molla che propelle verso l’infinito. Forse il fiato sta per terminare o forse ne ha ancora per qualche ora. Il bambino guarda dietro di sé e vede che gli scogli sono già lontani.

Pensa che stavolta è bellissimo muoversi in quella massa liquida, rotolarsi fra le onde, nascondersi sotto la superficie dell’acqua e osservare la luce che filtra dall’alto. È bellissimo nuotare scalzi.

 

Il viaggio di Nabil, un poema contemporaneo sulla migrazione clandestina

«Sorprendente, originale, commovente»
Emanuela Pistone, Isola Quassùd

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